martedì 20 settembre 2011

ILGELATO SECONDO ANGELA



Sapevo che avrei avuto una bambina, molto prima di quel test di gravidanza di quasi due anni fa.
Sapevo che avrei avuto una bambina e che si sarebbe chiamata Elisabetta, sapevo che sarebbe stata una bimba con le ginocchia perennemente sbucciate, come me da piccola. Sapevo che avrebbe giocato all’aperto e che avrebbe scavato a mani nude nella terra (non sapevo che l’avrebbe mangiata, questo no). Ricordo benissimo un’estate in cui io e mio fratello sezionavamo lombrichi, li osservavamo al microscopio e li congelavamo nel surgelatore di casa: non siamo mai stati sgridati, al massimo mia mamma si assicurava che i lombrichi venissero inseriti  nelle scatolette rotonde dei formaggini prima di essere ibernati a fianco del minestrone. Ricordo che ogni pianta e ogni cespuglio del giardino potevano diventare lo scenario fantastico di un altrettanto immaginario villaggio dei miei puffi, ricordo tante estati passate a piedi nudi e almeno due sere all’anno  al pronto soccorso per farmi togliere le schegge di vetro che immancabilmente i miei piedi intercettavano.
Sapevo che Elisabetta sarebbe stata come me, e che per questo non l’avrei mai sgridata per un vestito strappato, una manina sporca di terra, un lumacone maldestramente raccolto dopo la pioggia. Sapevo che non sarei stata ossessionata dalla pulizia estrema, dalla preoccupazione che un vestito possa sporcarsi o che un piedino possa ferirsi. Lo dice una che è capace di andare al lavoro con una maglia indossata al contrario e accorgersi solo verso le 17 che un’etichetta ondeggia allegra sul fianco.
C’è un “ma”, lo sapete già.
Io non sopporto vedere Elisabetta sporcarsi. Voglio che lei si senta libera di farlo, ma quando lo fa io mi sento male.
Credo che questa strana sensazione abbia avuto origine nei primi giorni con lei: non sentivo quell’onda trascinante di amore nei suoi confronti, mi sentivo inadeguata e incapace di fare la mamma, spaventata da ogni suo versetto e tutte quelle sensazioni mi facevano paura. Ad un certo punto mi sono detta che forse non era così importante calarmi nel ruolo di mamma affettuosa che avevo in mente, che forse dovevo iniziare da qualche compito più semplice: nutrirla e tenerla pulita. Del resto, in quei primi giorni sembrava che lei non desiderasse altro. Ho concentrato le mie energie per un po’ su quei due compiti, in maniera precisa e puntuale e ho cominciato a ripetermi “giuppy, tu sei una brava mamma perché Elisabetta mangia ed è pulita: andrà tutto bene”. E in effetti il resto è venuto da sé, dai bisogni primari a quelli più complessi il passo è stato naturale, ogni cosa ha preso la giusta strada.
Credo però che mi sia rimasta in testa l’equazione brava mamma=bimba pulita: si è depositata in me e lavora dietro le quinte. Per esempio, dietro le quinte di un sabato a casa della mia amica Angela, che non è una mamma ma è una grande Donna, e proprio per questo mi ha insegnato qualcosa sul mio modo di essere mamma.
A casa di Angela Elisabetta ha visto per la prima volta un ventilatore a pale in funzione, si è buttata dall’unico scalino presente sbattendo la guancia (non il ginocchio-non la testa-la guancia!!!) e ha assaggiato il gelato alla panna con i frutti di bosco caldi. “Assaggiato” significa che, posizionata la ciotola ben lontana da Elisabetta e dotata la bimba di bavaglino impermeabile, le porgevo qualche misurato cucchiaino di gelato. Angela ha resistito impotente qualche minuto, poi ha deciso che quello non era il modo di mangiare e, ignorando le mie proteste, ha messo davanti ad Elisabetta la sua ciotola di gelato. Mia figlia, incredula, ha fatto quello che credo stesse aspettando da un anno: ha lavorato il gelato con le mani e con il cucchiaio, l’ha succhiato, l’ha raccolto con le dita e spalmato ovunque (sul suo viso, sul tavolo di vetro di Angela, sui miei jeans…). Non ho prove che possano documentare la felicità di Angela e di Elisabetta, ero troppo tesa per pensare di tirar fuori il telefono e fare una foto…ma credo che anche una foto della mia faccia sarebbe stata divertente…
Per Angela e Elisabetta quello era il modo giusto di mangiare il gelato: spargendo, spalmando e sporcando. Io mi sentivo a disagio per le goccioline di gelato sul tavolo, per lo strato appiccicoso che si stava depositando sul viso di mia figlia, per la sua maglietta a fiorellini rosa pulitissima… cioè per disastri risolvibili in dieci minuti e con poco sforzo. E’ chiaro che non era questo il problema, c’era qualcos’altro che mi rendeva tesa.
C’è in me, giù nel profondo, il timore di essere ritenuta una “cattiva mamma” perché non so tenere pulita mia figlia e perché non so insegnarle le “buone maniere”, c’è il timore dello sguardo di un estraneo che si posa su una macchia, su un vestito strappato, su un ginocchio sbucciato, e giudica.
Nella vita i giudizi si prendono e si danno, più o meno consapevolmente lo facciamo tutti, perché giudicare serve anche per decidere cosa è bene e cosa è male per noi, cosa non faremo mai e cosa invece certamente faremo in una certa situazione. Si giudicano le persone, ma quando il giudizio tocca a noi spesso ci offendiamo, oppure ci scansiamo elegantemente per lasciare che cada nel vuoto. Eppure, essere giudicata come mamma è una cosa che spaventa particolarmente, che fa sentire male, a disagio, in difetto, fa venire voglia di scappare lontano in un passato in cui bastava mettere due lombrichi nel congelatore per sentirsi felici.
Qualcosa mi dice che sono sulla strada giusta, che le paure  vanno scardinate partendo da un gelato, che i nostri limiti possono non diventare i limiti dei nostri figli, se impariamo a riconoscerli. Intanto, a casa di Angela Elisabetta ha imparato finalmente come mangia il gelato una bambina di 16 mesi, io ho capito che ho ancora molto da imparare, e di certo ancora molte magliette da lavare…
giuppy